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DESERT YACHT CLUB, I NEGRITA RITROVANO LA VIA: “CI HA SALVATO DALLO SCIOGLIMENTO”
Tra il deserto e uno yacht club, al Goa Boa sbarca il rock “on the road” della band aretina
GENOVA – Il deserto non è sempre arido. Sarà tortuoso e infimo, ma offre anche qualche pausa, qualche appiglio. Un’oasi o, in questo caso, uno yacht. Come quello sulla copertina di “Desert Yacht Club”, nuovo album dei Negrita (in concerto venerdì 13 luglio al Goa Boa Festival del Porto Antico), che riavvicina i componenti della band aretina, riportandoli a casa: sulla strada. Figlio dei chilometri macinati negli Stati Uniti, il disco ha salvato i Negrita dallo scioglimento, scavando nel loro passato con uno sguardo nostalgico, ma soprattutto guardando avanti con la «giusta arroganza».
Drigo, lo yacht lo troviamo anche sulla copertina del disco. Cosa intende mostrare?
«C’è qualcosa di simbolico e affascinante di andare all’arrembaggio a cavallo di una nave arenata nel mezzo del deserto. Come abbiamo già raccontato più volte, questo disco ci ha aiutato ad aggiustare alcune dinamiche che negli ultimi anni ci avevano allontanato. Ci ha salvato dallo scioglimento. Lo yacht potrebbe rappresentare un appiglio, mentre la luce… una luce, una speranza».
Il viaggio è da sempre causa ed effetto della vostra musica. Come nasce “Desert Yacht Club”?
«Nasce a ottobre 2013. Siamo partiti per un tour che ha toccato, tra le altre città, Tokyo, Londra e Los Angeles. Oltre a poter suonare in piccoli locali, a stretto contatto con il pubblico (sia italiano, sia straniero), questa piccola serie di concerti ci ha permesso di viaggiare. Una volta arrivati a Los Angeles, abbiamo passato qualche giorno nella casa di Vasco Rossi. Lì abbiamo iniziato a comporre, con un sistema inedito».
Un sistema che avete definito “Kitchen Groove”.
«Esatto. Quel che ci serviva era solo un tavolo, due piccole casse che entravano in uno zaino, una scheda audio, un microfono, e due chitarre prese in affitto da un negozio di fumetti, lì a Los Angeles. Una volta lasciata casa di Vasco, abbiamo iniziato a comporre viaggiando, spingendoci in modo estemporaneo negli Stati Uniti: sceglievamo la meta giorno per giorno».
Come si è riflettuto sul disco questo modo di comporre?
«La differenza principale di “Desert Yacht Club” sta in alcune sfumature, ricevute dal fatto che sia stato composto da seduti. Non in sala prove, ma facendo fotografie di quello che ci circondava attorno a una tavola. Oppure seduti per terra, una volta calato il sole, a cantare e a registrarci con il telefono. Abbiamo scritto le canzoni in base alle emozioni si creavano sul momento. Probabilmente manca un po’ l’aspetto viscerale e fisico di altri nostri album, ma a noi va bene così. Ogni album non deve mai ripetere la forma di quello precedente: è il nostro mantra».
Ritorniamo negli Stati Uniti: un giorno arrivate al “Desert Yacht Club”.
«Sì. Durante il viaggio abbiamo avuto l’occasione di conoscere nuovi posti, nuova gente, nuove storie, e di entrare in situazioni speciali all’interno di club. Tra tutti i posti dove abbiamo registrato, il Desert Yacht Club è quello che ci ha colpito maggiormente, e abbiamo deciso di dedicarci il titolo dell’album».
A Genova si dice che i nuovi cantautori siano i rapper. Cosa ne pensate?
«Può essere vero. Da musicisti, non ignoriamo affatto un fenomeno di questa portata, anzi: ci piace, ed è molto interessante. I rapper hanno un approccio diverso dal nostro, e proprio per questo hanno la nostra massima stima. Non è affatto facile esprimere concetti in rima, con belle metafore e giochi di parole. Poi, ovviamente, ci sono rapper e rapper: Ensi è uno di quelli. È il primo con cui collaboriamo (in “Talkin to you, ndr), e non sarà sicuramente l’ultimo».
Riprendiamo il viaggio. Hai un ricordo in particolare di una tappa genovese?
«Io vengo in Liguria da quando sono un bambino, ma il ricordo più vivido di Genova che ho è il nostro primo concerto, nel 1994. Mi sembra fosse proprio al Goa Boa. Durante tutto il concerto c’è stato un saliscendi indescrivibile dal palco, contornato da un pogo altrettanto grande. La situazione era infuocata, e a un certo punto un ragazzo si è gettato dal palco. Nessuno lo prese, fece uno stage diving completamente nel vuoto. Ricomparve tra la folla poco dopo con il polso a ciondoloni, ma continuò a ballare. Ovviamente svenì poco dopo per il dolore. Inizialmente fu divertente, ma mi fece ragionare su fino a che punto il pubblico si possa spingere oltre».
A ventisette anni dall’inizio del viaggio, e dieci album dopo, quali saranno le vostre prossime destinazioni?
«Prima di tutto il tour. Ad aprile abbiamo fatto solo una toccata e fuga di tre date, ora siamo partiti col tour estivo: ci sarà da divertirsi. Il disco ha un imprinting digitale che riproporremo sul palco con un mostro “digitale” fatto di schermi. Abbiamo tutta la stagione a disposizione per dare gas, e liberare la nostra genetica. Per il futuro stiamo già facendo un po’ di programmi. Abbiamo un paio di idee e di prospettive per ciò che verrà dopo questo album. Ma dobbiamo ancora decidere: lo scopriremo – e lo scoprirete – solo vivendo».
Su Giulio Oglietti
Cresciuto tra la nebbia e le risaie del Monferrato, è a Genova dal 2013. Laureato in Informazione ed editoria, collabora con GOA da luglio 2017. Metodico e curioso, è determinato a diventare giornalista. ogliettig@libero.itUn commento
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