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LA TEORIA DEL SOSPETTO DIETRO AL DECLASSAMENTO DELLO STABILE
Cresce lo sdegno in città per la decisione della commissione ministeriale. Ma i vertici annunciano battaglia
Di Tomaso Torre
La domanda, a distanza di ventiquattr’ore, sorge spontanea e resta ancora senza una risposta. Come può una compagnia come lo Stabile, sintesi perfetta di tradizione e popolarità, essere declassata dal novero dei teatri nazionali? Forse la spiegazione sta proprio nelle poche spietate righe con cui la commissione ministeriale ha motivato la scelta. <<Non si vive solo di blasone. Mancanza di innovazione e progettualità, un teatro ripiegato su stesso e sulla sua storia, senza dinamismo, investimenti, ricerca, investimenti adeguati.>>
Parole che appaiono sinistre, ritratto di una città che regredisce anziché innovare e si specchia nel ricordo di un passato glorioso sbiadito nel tempo, risuonando come una sentenza inesorabile e crudele, che non ammette repliche. Lo Stabile chiude il sipario ed esce definitivamente di scena? Nient’affatto, la verità probabilmente si lega a logiche di interessi privati, non preventivabili, rilanciando con forza la tesi del sospetto che senza troppi giri di parole gli attuali vertici del teatro italiano, come Marco Scaccialuga e Carlo Repetti, hanno ammesso una volta appresa la ferale notizia.
Ma andiamo con ordine, per fare un po’ di chiarezza sui punti che secondo la commissione motivano la decisione. La storia deve avere il suo peso nella valutazione di un compagnia, tappa a cadenza annuale di illustri rappresentanti del teatro nazionale (Eros Pagni, Gabriele Lavia e la compianta Mariangela Melato tanto per citarne alcuni) ne sono soltanto un’ineludibile conferma. Lo Stabile, inoltre, intende rispettare i requisiti stabiliti dal Ministero che prevede 240 giornate recitative di produzione e 15mila giornate lavorative per artisti e tecnici.
C’è poi la questione dell’impegno degli Enti Territoriali e Pubblici che dev’essere pari al 100% del contributo statale per una corretta gestione delle sale. La proposta è stata accolta da Regione e Comune che hanno garantito la loro disponibilità. Terzo punto, il più spinoso, il nodo contrattuale: il Ministero chiede che almeno il 50% del personale artistico venga mantenuto rispetto a quello precedente e quello amministrativo e tecnico goda di un accordo di tipo indeterminato. E anche su questo punto lo Stabile è in regola. Per non parlare della scuola di perfezionamento di cui già dispone.
E allora perché la bocciatura è stata così netta, viene da chiedersi mentre in città cresce lo sdegno? Torniamo al punto di partenza, la regola del sospetto. Il Consiglio Comunale di Firenze nei giorni scorsi ha dato il via libera alla delibera che modifica lo statuto della Fondazione della Pergola che lo trasforma in Fondazione del Teatro della Toscana. Voi penserete, cosa c’entra con la vicenda dello Stabile? C’entra eccome. Perché è quella stessa delibera che ingloba il Teatro Era di Pontedera nel novero dei teatri nazionali, proprio alla vigilia della decisione della commissione ministeriale. Aver subito pressioni perché una compagnia del teatro della città del premier Matteo Renzi non pare una casualità anche a fronte <<di nuove 17 assunzioni>> che non sono sufficienti a motivare una decisione quantomeno discutibile. Lo Stabile ha annunciato battaglia, sottolineando <<come dietro alla scelta ci fossero pressioni politiche>> più che motivazioni concrete. L’impressione è che la partita sia solo alle battute inziali. Quello che è certo che Genova, lo Stabile per ciò che rappresenta e ha rappresentato per il teatro italiano, meritava maggiore rispetto. E su quest’aspetto nessuno può obiettare.
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