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DRAGOGNA DEI MINISTRI CANTA FABER AL CANE: “OGGI LE SUE PAROLE COME BOMBE DISINNESCATE”

Il chitarrista e autore dei Ministri protagonista di “Quello che ho capito di De André” al circolo di Corso Perrone
Genova – Una delle colonne portanti del cantautorato, raccontata e riletta tra parole e musica dal chitarrista di una delle principali band alternative rock italiano. Domani, sabato 9 novembre, Federico Dragogna dei Ministri porta al Cane di corso Perrone “Quello che ho capito di De André”, spettacolo «che non è un concerto anche se della musica c’è – rivela Dragogna – e che non è un reading anche se ho dei fogli davanti: di sicuro c’è la mia voce, quella di Faber e quella del tempo in cui siamo tutti immersi».
In “Quello che ho capito di De Andrè” c’è Faber, ma c’è anche Federico. Come racconti questo parallelo?

«Raccontare mostrando il mio punto di vista è l’unico modo che ritengo adatto quando mi trovo a leggere le opere di altri artisti: è fondamentale dichiarare il proprio pulpito, senza elargire analisi “terze” dall’alto di una torre d’avorio. Per quanto riguarda il parallelo, De André è stato come me un ragazzo che ha lasciato l’università per fare il musicista, tradendo le aspettative di carriera immaginate dalla famiglia. Faber ha compiuto scelte più radicali delle mie ma non per questo meno distanti, e ho cercato di immaginarmelo come un mio compagno d’università fuori corso. Un’altra analogia che vedo è quella di prendersi molto sul serio: per quanto non si considerasse un granché, De André scriveva e raccontava temi non semplici. Prima di lui grandissima parte delle canzoni erano “canzonette” che parlavano di amore o frivolezze, e la musica non era considerata un mezzo per parlare di argomenti più seri».
Le parole di De André hanno lo stesso peso di quando sono state scritte?
«No, prima di tutto attorno a Fabrizio De André c’è stato un processo abbastanza particolare difficilmente replicabile nel 2019. Nonostante provenisse da una famiglia molto benestante, è stato il poeta degli esclusi e delle minoranze. Oggi sarebbe quasi impossibile: il suo ceto sociale sarebbe la prima arma utilizzata dai suoi detrattori per invalidare le sue opere. Rilette oggi, le sue parole sembrano bombe disinnescate dalle teche e dai giardini che gli sono stati costruiti attorno».
Nel 2019 avrebbe quindi grandi difficoltà a portare avanti il proprio discorso.

«Esatto, nonostante oggi sia visto come un maestro quasi indiscutibile: da un lato in questo modo le sue parole rimangono vive, ma dall’altro non sono mai messe in discussione e rischiano di perdere d’efficacia. Oggi Faber sarebbe etichettato come il figlio di papà che vuole parlare di prostitute, ricevendo critiche da ogni schieramento e risultando un artista assai problematico».
Tornando a noi, dove possiamo ritrovare Faber nel tuo modo di scrivere canzoni e nei Ministri?
«In questo senso ho ritrovato Fabrizio De André quando ho deciso di scrivere in italiano per il rock. C’erano casi di riferimento più vicini al nostro genere come gli Afterhours, ma il loro modo era più attorcigliato, complicato. Io ho trovato in Battiato e in De André i miei punti di riferimento. In generale, nel corso della mia vita De André è venuto a bussarmi alla porta molte volte: dal primo ascolto di “Nuvole” da bambino alla registrazione di “Fidatevi” in studio con Mauro Pagani, passando a Faber Nostrum».
A quest’ultimo progetto avete partecipato scegliendo “Inverno”. Perchè?
«A chi non è mai capitato di ascoltare o guardare qualcosa e pensare che sia talmente bella che non è possibile che sia stata inventata da qualcuno? Come se fosse una montagna, come se fosse sempre esistita. Per noi “Inverno” ha quel fascino e trasmette un’impressione di bellezza indescrivibile».
Porti “Quello che ho capito di De Andrè” in una location non casuale: il Cane di corso Perrone.
«Esatto, è un posto che conosco bene e che supporto a pieno. Realtà come il Cane e il Greenfog Studio di Mattia Cominotto sono fondamentali per una scena culturale sana, dove le cose che vengono fatte sono percorse da uno spirito che non è quello del commercio. Le persone sono più sollevate e non più meri “consumatori”: riuscire a tenere in vita questi granelli dorati è un compito importante per tutti, anche per noi artisti».

Su Giulio Oglietti
Cresciuto tra la nebbia e le risaie del Monferrato, è a Genova dal 2013. Laureato in Informazione ed editoria, collabora con GOA da luglio 2017. Metodico e curioso, è determinato a diventare giornalista. ogliettig@libero.itUltime Notizie
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