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L’ETERNO CONFLITTO TRA BENE E MALE NEL DRAMMA “IL CROGIUOLO” DIRETTO DA UN FILIPPO DINI ISPIRATO
GENOVA – L’eterno conflitto tra bene e male, la “caccia alle streghe”, ormai conosciuta nel linguaggio comune, che diventa ossessione e conflitto e ci riporta quasi sorprendentemente ai temi di stretta attualità. Il crogiuolo di Arthur Miller, diretto da Filippo Dini (apparso ispirato nel ruolo di John Proctor) e prodotto dal Teatro Stabile di Torino, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro di Napoli, in scena al Teatro Ivo Chiesa fino al 20 novembre, è una continua riflessione sullo sfumato confine tra verità e menzogna riportando a galla, attraverso il dramma, un tema che ci restituisce ai nostri giorni: la delazione. Il dramma scritto nel 1953, che affronta una vicenda realmente accaduta nel 1692 in Massachusetts, nota come la storia delle “Streghe di Salem”, è un vortice di psicosi, isteria sociale, persecuzione morale. Lo spettatore assiste impotente a litigi, a bugie, ad accuse senza poter riferire ai protagonisti della vicenda quello che ha visto nella prima scena, attorno al quale tutto ruota. Dietro le vicende che accompagnano lo spettatore per le quasi 3 ore di spettacolo diviso in quattro parti, si nascondono le paure e i drammi umani che generano una spirale di vendette, accuse, recriminazioni che culmineranno in un processo a 144 persone e 19 impiccagioni.
Lo spettacolo si apre con un’entrata in scena dei personaggi femminili che, camminando al buio alle spalle del pubblico con candele in mano, salgono sul palco e si preparano al rito. Lo spettatore si trova immediatamente travolto da una danza frenetica, con fumo e luci soffuse, musica cadenzata e giovani ragazze che ballano scomposte, seminude. Chi guarda si trasforma quindi subito, quasi senza rendersene conto, in testimone del maledetto rito, del seme di tutti mali che si abbatteranno sulla cittadina di Salem, in Massachussets.
Quello che viene raccontato nel dramma è un fatto realmente accaduto nel 1692, che ha visto come protagoniste due ragazze, Abigail Williams (Virginia Campolucci) ed Elizabeth Parris (Valentina Spaletta Tavella), che ritenute vittime di un maleficio e pressate dall’intera comunità si sono viste costrette ad accusare altre persone della cittadina di averle stregate e di aver fatto loro vedere il diavolo in persona.
Fin dalle prime scene è palpabile l’astio che corre tra gli abitanti di Salem, che li rende pronti ad accusarsi a vicenda senza reali motivi. Ai piccoli alterchi si aggiunge una cieca vendetta causata da un amore tradito, che trascinerà il protagonista John Proctor, impersonato dall’impeccabile Filippo Dini, in una spirale senza fine che lo porterà a dover scegliere tra la vita e la dignità e a supplicare magistrati e concittadini: “Vi ho dato la mia anima, lasciatemi almeno il mio nome”.
Le scelte registiche accompagnano il pubblico in un ritmo serrato e coinvolgente, che non lascia spazio a cali d’attenzione. La scenografia curata da Nicolas Bovey, imponente e austera, si scompone e ricompone, ricreando le diverse ambientazioni di esterni ed interni grazie a luci e semplici oggetti.
Durante una delle scene del processo, quando viene sottoposto un interrogatorio ad Elizabeth (Manuela Mandracchia), la moglie di John Raptor, un microfono che viene calato dal centro del palco scandisce e amplifica ogni sua parola, conferendo così a ogni affermazione un peso fatale.
Il crogiuolo è indiscutibilmente un dramma, ma riesce ad alternare momenti di forte tensione tragica ad istanti di sorriso, provocati dagli eccessi di rabbia e dai furiosi litigi, interpretati dagli attori con grande naturalezza e veridicità, tra gli abitanti del paese. Pur essendo una vicenda ambientata nel Seicento si ricollega sia all’incredibile dilagare del maccartismo degli anni Cinquanta, da cui lo stesso Arthur Miller fu colpito, sia al difficile momento che sta vivendo l’uomo contemporaneo: «[Miller] ci racconta di come l’obbedienza alle regole che la comunità stessa si è data possa sostenerla saldamente e al tempo stesso gettarla con grande velocità nel caos più profondo – spiega Filippo Dini -. Dopo più di due anni di pandemia e l’evolversi delle atrocità in Ucraina, questo testo suona una musica nuova e terribile: noi stessi e la nostra epoca ribolliamo nel crogiuolo dell’orrore e della meschinità». Cosa siamo disposti a sacrificare per mettere in salvo verità e giustizia?
Elisa Morando
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