“Confessionali”, la mostra di Fulvio Magurno

Di il 26 Settembre 2019

GENOVA – La nuova mostra di Fulvio Magurno, dall’enigmatico titolo Confessionali, sarà inaugurata giovedì 3 ottobre alle ore 18.00 in piazza San Matteo a Genova.

Un corto-circuito sensoriale restituisce, attraverso la visualità di un defilé serrato d’immagini, il fruscio sibilante dell’inaudibile. Ecco presentarsi un corpus fotografico di venti opere in bianco e nero, su carta, firmato Fulvio Magurno, intitolato Confessionali, nome del capo d’arredo ligneo introdotto nelle chiese cattoliche dal cardinale Carlo Borromeo a metà del Cinquecento. L’artista, nel titolo, ricorre all’uso della figura retorica della sineddoche, indicando il luogo in cui accade la confessione, circoscritto e focalizzato fotograficamente nella sola parte della grata metallica, capo di imputazione. In questa meditata occasione espositiva, l’artista affigge, impunemente, il suo sguardo indiscreto su un’inquietante processione di logore, vissute, trasudanti grate di confessionali, tanto reali quanto visionarie da rinviare ad oscure scenografie conventuali tipiche, a titolo di esempio, del pittore settecentesco Alessandro Magnasco, Il Lissandrino.  Corpi di afflizione, affissi alle pareti della galleria, si presentano come umbratile sequenza di una garitta di peccati, veri o inventati. Potenti epiteti con cui li definisce Enrico Testa nel suo intenso poema dedicato a Fulvio Magurno e alla sua opera.

Non è infrequente che noti scrittori come Antonio Tabucchi, Nico Orengo, Maurizio Maggiani, Enrico Testa, appunto, intessano narrazioni o liriche sui lavori di questo artista. Sono piccoli orifizi, praticati nelle grate di ottone, ferro, rame, alluminio, in modo equidistante, come le impronte di pennello su una tela dell’artista concettuale svizzero Niele Toroni, sono costellazioni di buchi, prevalentemente tondi, come quelli sui telai ovali di Lucio Fontana. Gli stessi piccoli orifizi, le stesse costellazioni di buchi, in Magurno, sono consunti portatori di cariche simboliche, misticamente connotate: soglie attraverso cui affiora il pentimento di una jouissance, la jouissance di un pentimento, di remoto sapore lacaniano. Diaframmi, tra il sacerdote, seduto in ascolto e il penitente, inginocchiato bisbigliante, le grate, ora portano l’intaglio del monogramma latino JHS, trascritto dal nome greco di Gesù, spesso con una croce stilizzata iscritta sulla H, ora, sotto il cristogramma, compare il disegno di un cuore perlato tra due fiori a sei petali, altrove un vortice di cerchi concentrici, di abissi e rilievi di luci e ombre. Accade che parte dei fori arrotondati della grata si sdoppino in altri più piccoli, al loro interno, quasi a filtrare e abbassare l’ascolto e la vista: l’effetto è quello inquietante di una moltitudine di ocelli che guardano il penitente, senza rinviare ad un soggetto o a un volto, perché è la grata stessa che si fa volto e soggetto, avida di visioni, di auscultazioni confidenziali, impudiche, oscure, mai proferite prima, finora inascoltate. 

Grate più rudimentali presentano, allo sguardo contrito del confessando, ora il delinearsi fantasmatico di una croce, ora il formalizzarsi, sulla lastra metallica, di un volto, grottescamente perverso, in cui due cerchi accostati delineano gli occhi, la verticale mediana della croce il naso, i sei semicerchi sottostanti una bocca sdegnosa, disapprovante. Tra incisioni, graffi, scritte, decorazioni, fregi, ossidazioni sinistre, affiorano, nell’immaginario, elementi iconografici, superfici lunari di crateri, monti, depressioni. Quando appare, subliminalmente, la forma modulata di un orecchio, di un padiglione auricolare, naturale ricettacolo d’onde sonore, voci, sussurri, silenzi, urla, che riconduce visualmente a strutture vestibolari e labirintiche, è l’orecchio di Vincent Van Gogh che scivola sullo schermo del nostro immaginario, facendosi ineludibile veicolo del cosiddetto Pathosformel/Formula del Pathos di un grande storico dell’arte di Amburgo, autore di Mnemosyne Bilderatlas/Atlante d’Immagini della Memoria.  Il mondo, infatti, si vede e si ascolta, permea l’occhio e l’orecchio, l’immagine e il suono, come teorizza Aby Warburg quando enuncia il suo itinerario di ricerca nelle due formule La parola al suono – zum Klang das Wort, La Parola all’Immagine/zum Bild das Wort  Grate come dispositivi di slittamento tra l’occhio, parzialmente deprivato, e l’orecchio, decisamente privilegiato, come mise en abyme di una sempiterna croce del corpo e dell’anima, come filtri di rimozioni di sensi di colpa indecidibili. La contiguità metonimica di opere tanto emozionalmente connotate, investite d’ineludibili rimandi archetipici, sollecita nello spettatore una lettura liturgico-allegorico-sensoriale della mostra.

Non cessando di valicare i confini disciplinari del linguaggio estetico, Fulvio Magurno, maestro nel catturare momenti di un’unità frantumata, ne inaugura un’inedita continuità. Con i suoi Confessionali l’artista confessa l’inconfessabile: non la colpa della trasgressione, ma il trasporto, attivato dai meandri del desiderio, per il divieto che rende la trasgressione possibile, cioè quel gesto di auto-accusazione di una colpa senza il quale non ci sarebbe il peccato e di conseguenza il confessionale in cui denunciarlo. La penitenza si colorerebbe, da una parte, di sacrificale masochismo e dall’altra di sacrale sadismo, mantenendo così in essere quel dispositivo per cui il Confessionale autolegittima la sua presenza nella chiesa. Senso di colpa ricercato per essere confessato-punito-assolto-ripetuto in un rituale di richiesta di ascolto per sfuggire, forse, alla cerchia diffusa dell’indifferenza e della solitudine. Il suono che, i confessionali ripresi da Fulvio Magurno lasciano presentire, si interconnette all’immagine visuale facendo affiorare il ricordo, attivando la rammemorazione. La memoria visionaria e immaginativa dell’artista non cessa di attingere, secondo il concetto warburghiano di Mnemosyne, alla camera oscura dell’insondabile archivio dell’Essere.

C.S.

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