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Cinquant’anni di “Equus” al Duse: l’eutanasia sociale di una giovane passione

Fotografia di Federico Pitto
di Giorgia Di Gregorio
Cinquant’anni fa, per la prima volta in Italia, al Teatro Duse di Genova andava in scena una storia che toccava le più profonde corde della nostra coscienza. Cinquant’anni dopo la regia di “Equus” fa da testimone generazionale ad una storia sempre attuale, passando dalle sapienti mani di Marco Sciaccaluga a quelle del figlio Carlo. La prima nazionale dello spettacolo, tenutasi ieri sera al Duse, ha rapito il pubblico genovese e ne ha sospeso il tempo.
L’opera cattura fin dall’inizio la platea iniziando il racconto di questa inchiesta psichiatrica introspettiva proprio nel mezzo della sala, da cui parte la narrazione dei fatti dello psichiatra Martin Dysart (Luca Lazzareschi) che osserva da lontano un ragazzo ed un cavallo, avvolti da una iniziale aura mitologica, anch’essa sospesa nel tempo. La scena (di Anna Varaldo) procede sul palco vero e proprio, una sorta di arena circolare e spiroidale rotante che per tempo del racconto si trasforma in stalla, studio della clinica, salotto di casa, spiaggia, cinema, sogni e ricordi. I personaggi infestano ogni spazio della scena, creando nuovi nuclei della narrazione in ogni angolo.
È proprio nelle loro parole e nei loro gesti che ritroviamo il cuore dell’opera: tutto gira intorno al malessere sfociato in violenza del diciasettenne Alan Strang (Pietro Giannini), che, sospeso tra le luci e le ombre di un vissuto ancora acerbo, non può essere considerato criminale o responsabile delle proprie azioni. L’adolescente, che nella prima parte dello spettacolo viene mostrato come un povero pazzo traumatizzato da chissà quale entità sconosciuta, prende tutt’altra forma nella seconda parte, che lo vede invece nella sua forma più umana. Ed è questa la domanda che viene posta al pubblico: cos’è umano e cosa non lo è? Cos’è la normalità? La felicità ha dei limiti? O meglio, esistono felicità e passioni lecite? Ce ne sono di più normali e accettabili di altre o hanno tutte lo stesso diritto di esistere?
Questi sono i dubbi che assalgono gli spettatori ed in primis lo psichiatra Dysart, il quale arriva a mettere in discussione la propria vita coniugale, le proprie passioni e desideri, nutrendo un sempre crescente sentimento di gelosia nei confronti del giovane paziente. Il suo compito è quello di curare il ragazzo, di capire le sue ragioni e di alleviare le sue sofferenze, ma la vera conclusione che trae dalle visite è che Alan non potrà mai essere appagato come lo è quando sta con i suoi idolatrati cavalli, nudi e liberi. Alan non smetterà mai di soffrire per questo, il dolore si può solo affievolire, ma non scomparirà. Potrà amare, provare piacere e anche godere della vita, ma non arriverà mai alla felicità di quei momenti equestri.
Il quadro che l’opera dipinge della società contemporanea è uno spazio repressivo in cui la socializzazione diventa soffocante ed in cui le proprie passioni trovano limiti da non oltrepassare mettendoci in gabbia. Si comprende, quindi, come la mente di un bambino (alla soglia dell’età adulta, ma pur sempre un ragazzino), venga così radicalizzata verso l’oppressione dei propri sentimenti più profondi e sacri, che inizialmente possono essere indotti dalla fede cristiana della madre (Pia Lanciotti) o dall’ateismo socialista anti-consumista del padre (Paolo Cresta), ma che partono dalle pulsazioni infantili di Alan, da un ricordo di gioventù, dal primo approccio a quello che per lui sarebbe stato il più profondo significato della vita e dei suoi piaceri. Che l’immagine di Cristo sia stata sostituita da quella di una enorme cavallo bianco poco cambia, quello che conta è il malessere e la passione che scatenano nel ragazzo, la sensazione, che diventa ossessione, di essere sempre osservati, che gli occhi di Dio, o meglio, di Equus, siano ovunque, e che solo nei momenti di assoluta solitudine e oscurità la vera natura del ragazzo si possa scatenare in tutta la sua epicità.
Il sogno di Alan è essere con Equus, diventare un tutt’uno con lui, indossando insieme il morso da cavallo, domandosi insieme, correndo insieme, calpestando i propri nemici insieme. L’incubo dello psichiatra è invece quello di non riuscirsi mai a levare la sua stoica maschera d’oro dal volto e finalmente mostrare agli altri, ed in primis a sé stesso, la sua inadeguatezza interiore ed il suo disprezzo verso la professione, la sua vita, la sua routine, ciò che è costretto a fare ogni giorno da anni: rendere normali gli altri.
Il malessere scaturito da questa dualità rende impotenti i protagonisti che, schiavi delle proprie pulsazioni, non riescono a trovare nella normalità della socialità e della propria sessualità una realtà da fare propria, marcando un sempre più profondo solco tra ciò che la società vuole imporre e ciò che la vera natura dell’essere umano è, una natura che non ha né maschere né limiti, che nasce libera ma che deve soffocare tra le briglie dell’adeguatezza e del bon ton non scritto dell’agire umano.
Applausi a scena aperta per tutti gli interpreti dell’opera, tra cui spiccava in particolar modo la coinvolgente ed immersiva interpretazione di Luca Lazzareschi nei panni di Dysart e di Pietro Giannini in quelli di Alan.
Regia di Carlo Sciaccaluga
Con Luca Lazzareschi (Martin Dysart), Pietro Giannini (Alan Strang), Pia Lanciotti (Dora Strang), Paolo Cresta(Frank Strang), Camilla Semino Favro (Ester Salomon), Giulia Prevedello (Jill Mason), Michele De Paola (Harry Dalton, un giovane cavaliere)
“Equus” è in scena al Teatro Duse di Genova fino a domenica 6 aprile
Maggiori informazioni sul sito: https://www.teatronazionalegenova.it/spettacolo/equus/

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Il direttore responsabile di GOA Magazine è Tomaso Torre. La redazione è composta da Alessia Spinola. Il progetto grafico è affidato a Matteo Palmieri e a Massimiliano Bozzano. La produzione e il coordinamento sono a cura di Manuela BiaginiUltime Notizie
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