STEFANO MASSINI TORNA AL TEATRO IVO CHIESA CON “DONALD”, IL SUO AFFRESCO SU TRUMP E L’EPICA DEL POTERE

Di il 29 Ottobre 2025

L’autore e drammaturgo fiorentino andrà in scena dal 31 ottobre al 2 novembre. La domenica replica con audiodescrizione e percorso tattile a cura del Centro Diego Fabbri/Teatro No Limits

GENOVA – Dopo aver conquistato le platee internazionali con Lehman Trilogy e Manhattan Project, il drammaturgo e narratore Stefano Massini torna a esplorare i grandi miti dell’America contemporanea, scegliendo questa volta di raccontare la vertiginosa parabola di Donald J. Trump. Con “Donald – storia molto più che leggendaria di un Golden Man“, in scena al Teatro Ivo Chiesa da venerdì 31 ottobre a domenica 2 novembre, Massini – unico autore italiano premiato con un Tony Award – affronta la figura del magnate newyorkese che, infrangendo ogni schema, è riuscito a imporsi fino alla Casa Bianca, reinventando a proprio vantaggio le regole di economia, finanza, politica e costume.

Donald non si limita a essere una biografia scenica: è un viaggio epico attraverso l’immaginario statunitense, una sorta di chanson de geste moderna che attraversa i simboli della cultura pop e le contraddizioni del potere. Un racconto che interroga il pubblico su come il denaro, da semplice strumento, sia diventato fine ultimo e motore di consenso, specchio di una società dove tutto – perfino l’identità – può essere messo in scena.

Domenica 2 novembre replica accessibile alle persone non vedenti e ipovedenti con audiodescrizione e percorso tattile a cura di Centro Diego Fabbri / Teatro No limits. È consigliata la prenotazione al numero 010 5342 400.

Foto di Filippo Manzini

Dopo Lehman Trilogy, con Donald torna ad affrontare l’epica americana. Cosa l’ha spinta ad affrontare la figura di Donald J. Trump? Il suo teatro può essere definito una sorta di teatro epico contemporaneo?

Sì, l’epica contemporanea è una cosa che perseguo si può dire da sempre. C’è un rapporto molto stretto che lega Donald a Lehman Trilogy. Ho cominciato a lavorare sulla vita di Donald Trump nel 2016, quando mi trovavo a New York, alla fine del mese di novembre, a presentare per l’appunto il mio lavoro sulla storia della famiglia Lehman. Mentre mi trovavo a New York Trump aveva vinto le elezioni da pochissimo.

Tutta New York parlava di lui. Davanti alla Trump Tower c’era addirittura modo di vederlo fugacemente, cosa che mi è capitato di fare, e lì mi resi conto di una coincidenza, una coincidenza fortissima, che in quel dicembre del 2016 mi cominciò a far venire voglia di occuparmi di questa storia. La coincidenza sta nel fatto che il primo successo, o come lo direbbe lui, il primo “trionfo” immobiliare, affaristico, finanziario di Donald J. Trump risale esattamente allo stesso momento in cui finisce Lehman Trilogy, perché muore Bobbie Lehman.

Cioè, la mia storia del capitalismo americano finiva negli anni ’60 con la morte dell’ultimo dei Lehman, quindi la fine della terza generazione che raccontavo in quel mio testo, che non era soltanto la storia della famiglia Lehman, ma era la storia dell’economia americana, del capitalismo americano. Nel 2016 scopro che Donald Trump nasce, dal punto di vista economico, esattamente nel momento in cui muore Bobbie Lehman, e quindi capisco che ho un’occasione straordinaria, un’occasione narrativa straordinaria, che è raccontare una storia spericolata, “oversize”, esagerata, continuamente nutrita di un’ipertrofia – perché Donald è uno spettacolo ipertrofico.

In Lehman Trilogy c’era un momento in cui alla linearità dei primi fratelli Lehman si sostituiva una tentazione di ipertrofia. C’erano dei momenti di Lehman Trilogy che erano ipertrofici, l’ossessione della Borsa di New York, questo saltare dei numeri, l’ossessione con cui Bobbie Lehman scendeva per strada e aveva la percezione che tutto quanto il mondo circostante fosse nelle sue mani, ma era qualcosa che poi veniva sempre ricondotto nell’alveo della plausibilità, diciamo, e anche probabilmente della decenza.

Donal J. Trump, al di là della sua figura, è l’emblema di un’economia che dopo gli anni ’60 cambia completamente faccia. Gli anni ’70, gli anni ’80, soprattutto gli anni ’80 con il reaganismo, diventano l’apoteosi di una finanza che non conosce più limiti, che non vuole più il perimetro, anzi, percepisce il perimetro come una forma di debolezza, e quindi lo nega.

Qui c’è una storia che è, secondo me, straordinaria perché è shakespeariana, qui c’è la mania del potere, c’è il suo sviluppo esponenziale. Questo è uno spettacolo che si sbilancia totalmente verso una forma di mania. La mania del possesso, la mania dell’accumulo, è uno spettacolo che procede per una forma quasi insostenibile, kitsch, pacchiana, di sovrapposizioni continui, di segni, di conquiste, di colpi di scena, ed è Trump, questo è lui che vive, che vive di accentramento, di ipertrofia, come dicevo prima, e anche di imprevedibilità.

Trump è la costruzione di questa ascesa, è l’apoteosi dell’ascesa negli anni ’80, vedi la Trump Tower, questo monumento che anche urbanisticamente, architettonicamente, rappresenta la forza di questo uomo, che in fin dei conti aveva poco più che 30 anni allora, e poi, più tardi, il capitombolo micidiale degli anni ’90, le bancarotte in fila, l’ossessione del come salvarsi e la ripartenza dallo zero.

Per questo, è una storia bella, perché è una storia non lineare, è una storia contraddittoria, è una storia di incoerenze, di asimmetrie, per questo, secondo me, è una storia molto forte da raccontare.

Donald si ferma un attimo prima del Trump presidente che tutti conosciamo. Lei come ha scelto di raccontare il continuo cambiamento di maschere di Trump lungo la sua ascesa?

È esattamente così, non a caso lo spettacolo si apre con Barnum, cioè con il fondatore del circo moderno, anzi, di più, il fondatore di un circo moderno, nel quale per la prima volta Barnum, accanto agli animali da circo, esibisce i fenomeni da baraccone dichiaratamente fake. Barnum è colui che alla fine dell’800, ben prima che si partorisse anche una sola lontana ipotesi di fake news, faceva i soldi mostrando il corpo pietrificato di un gigante, la sirena delle Figi, la balia di George Washington. Traevaforza proprio dal fatto che i benpensanti e gli intellettuali inveissero dicendo che non poteva essere la balia di George Washington, perché avrebbe avuto 160 anni, che non poteva esserci un gigante pietrificato e la sirena delle Figi era scientificamente non attendibile.

Barnum nel 1876 diventa sindaco, cioè viene eletto sindaco, e non a caso questa domanda apre lo spettacolo e alleggia tutto il tempo, volutamente irrisolta, volutamente senza una risposta. Perché fra tutte le persone che c’erano, ben più affidabili di Barnum, scelsero in massa proprio colui che aveva fatto i soldi con la menzogna? È una domanda che poi, alla fine, si può dire fondante e fondativa di questo spettacolo e di questa storia, che, hai ragione, è una storia di maschere, è una storia di spettacolo.

Non a caso, Trump è ossessionato da una forma di lotta spettacolare che è il wrestling nella quale, non scordiamolo, eccelleva Lincoln. Il principale punto di riferimento nella storia politica americana, quello che alle nostre latitudini potrebbe essere un Camillo Benso Conte di Cavour, era uno che, da ragazzo, faceva wrestling e si vantava di aver vinto 18 incontri su 19. Lincoln diventa, insieme a Washington, il padre della grande storia degli Stati Uniti e più di una volta Trump si rifà alla sua epopea e al suo essere un combattente, un combattente di wrestling, cioè di una forma di combattimento che, in realtà, è una coreografia – nel wrestling tutto sembra vero, ma niente è vero, è una forma di lotta estremamente coreografica, estremamente spettacolarizzata, dove non distingui il colpo vero dal colpo finto.

Trump cresce così. Fra l’altro, anche questo è molto bello per me, al confronto con la storia dei Lehman ho la sensazione che questo spettacolo sia una specie di film accelerato, quando tu premi il pulsante che moltiplica i fotogrammi: ecco, è un po’ così. La storia dei Lehman era la storia di tre fratelli che facevano la loro ascesa, “irresistibile” l’avrebbe detta Brecht, in un tempo molto lungo, ottengono le loro conquiste in un modo assolutamente cadenzato, lineare, graduale. Donald,invece, è la storia di un’improvvisa velocizzazione di conquiste, traguardi, trionfi, trofei. All’età di vent’anni ancora è uno studente a Wharton e già riesce a portare a casa il successo dello Swifton Village a Cincinnati, e da lì è una somma continua, vorticosa. A un certo punto citiamo visivamente, grazie alle luci di Manuel Frenda, un capolavoro di Alfred Hitchcock che è Vertigo, con la proiezione di una spirale, che ci getta nella vertigine quanto negli incubi di Trump.

Ecco un altro elemento in comune con Lehman Trilogy: indagare la sfera onirica. L’elemento del sogno ricorre in questo spettacolo, come ricorreva in Lehman Trilogy e come ricorreva anche in L’interpretazione dei sogni di Freud, o in Mein Kampf di Hitler. L’analisi dei sogni dei personaggi che racconto è un elemento per me imprescindibile.

Quali sono le figure che accompagnano l’ascesa di Trump?

Questo è uno spettacolo nel quale continuamente ci sono interferenze, è un meccanismo che io amo molto, da un punto di vista drammaturgico, l’ho usato in tutti i miei testi, quelle interferenze improvvise di cui parlava Luca Ronconi, quando parlava della mia scrittura, dove diceva: a un certo punto smette di essere sceneggiatura cinematografica e diventa un saggio, poi da saggio diventa chanson de geste, e da chanson de geste diventa docufiction.

È vero, questo cortocircuito continuo a me piace moltissimo e lo adotto molto in questo lavoro su Trump. A un certo punto, adesso, c’è proprio la madre che da una fotografia appesa nel salotto di famiglia interviene nella narrazione chiedendo scusa se interrompe la storia, dicendo: credo di averne diritto, sono la madre, do la mia versione dei fatti. Tra queste incursioni narrative, ricordo l’avvocato Roy Cohn, che entra a gamba tesa dentro lo spettacolo con un’arringa, lunga 5-6 minuti, che si colloca improvvisamente come una forma di irruzione all’interno della struttura drammaturgica dello spettacolo, oppure gli interventi improvvisi e non autorizzati degli scontri fra Donald e suo padre. Sono tutti frammenti di dialogo che intervengono all’interno dello spettacolo, un po’ come intervenivano i litigi fra i fratelli Lehman nella prima parte di Lehman Trilogy.

Ecco, fa tutto parte di una grande narrazione non lineare, insisto, non lineare. Io ho questa idea, che il teatro, il mio teatro, oggi, abbia una funzione che è quella di tentare di raccontare la contemporaneità, ma non in presa diretta, perché io qua non racconto il Trump di adesso, esattamente come accadeva con i Lehman, dove io non raccontavo il fallimento della banca, era l’unica cosa che non c’era nello spettacolo. E lasciavo a bocca asciutta quelli che in quel momento pensavano di venire a teatro trovando il momento in cui era fallita la banca. Invece, i famosi giorni drammatici di settembre con gli scatoloni non c’erano, e così qui non c’è il Donald che vuole prendersi la Groenlandia, non c’è il Donald che minaccia di prendersi il Canale di Panama, non c’è il Donald dei dazi, non lo troverete qua.

C’è il Donald di prima, c’è il Donald che racconta sé stesso nelle puntate di The Apprentice, raccontando gli episodi della propria vita come fossero gli episodi di un’agiografia, dove si racconta il processo in cui il santo ha avuto la vocazione, così racconta il modo in cui ha avuto la vocazione per gli affari e per l’economia, ma non c’è il Donald presidente. Anzi, qua ci fermiamo nel momento in cui, all’inizio del nuovo millennio, nel pieno della sua crisi finanziaria, umana, relazionale, dopo il divorzio e dopo le bancarotte, si trova, per la prima volta, a intuire la possibilità di poter avere un avvenire politico.

E lì noi ci fermiamo. Perché non c’è più bisogno di noi, lì entra in scena il Trump che in questo momento è dovunque, e non c’è bisogno di raccontarlo. Io racconto il prima, e lo racconto con questa grande idea da teatro pubblico che soltanto il teatro pubblico può fare, di uno spettacolo che vada oltre il proprio confine. Noi, a volte, dimentichiamo che quando William Shakespeare scriveva la storia di Riccardo III, Riccardo II, Enrico IV, che a noi sembrano dei sovrani quasi ammantati di leggenda, Shakespeare raccontava la storia di un potere che era dell’altro ieri. Le persone sapevano perfettamente di che cosa si parlava, quando si parlava di Riccardo III, di Riccardo II, quando si parlava della casata degli York o dei Gloucester, erano politica, per loro, dell’altro ieri, come se noi oggi portassimo in scena Alcide De Gasperi, la stessa identica cosa.

Ecco, porto in scena Donald con la consapevolezza che la drammaturgia abbia un compito grande, importante, che è quello di stare nel proprio tempo, lo faceva Aristofane – Aristofane metteva in scena i politici della propria epoca, lui, addirittura, lo faceva proprio in presa diretta. Io lo faccio guardando al Trump degli anni ’50, ’60, ’70, ’80, ’90, arrivo fino a un quarto di secolo fa: è un teatro che sta con i piedi dentro la realtà.

(testo raccolto da Matteo Brighenti)

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