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DAVIDE MANCINI È RAFFAELE DELLA VALLE IN “PORTOBELLO”, LA NUOVA SERIE DI BELLOCCHIO PRESENTATA A VENEZIA: L’INTERVISTA

L’attore genovese ha sfilato sul celebre red carpet per la proiezione dei primi due episosi della recente produzione televisa firmata Hbo Original. Cuore del progetto, il caso giudiziario che travolse Enzo Tortora
di Alessia Spinola
GENOVA – Sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia, Davide Mancini, genovese classe 1987, sfila con l’emozione di chi sa di portare con sé un pezzo di storia collettiva. L’attore, infatti, ha sfilato tra i flash della celebre passerella veneziana per presentare i primi due episodi di “Portobello“, la nuova serie di Marco Bellocchio in cui figura e che ha conquistato il pubblico con nove minuti d’applausi. (Foto in copertina di Samina Seyed).
La serie ricostruisce il caso giudiziario che travolse Enzo Tortora, amatissimo conduttore televisivo, arrestato nel 1983 con l’accusa di collusione con la camorra e traffico di droga. Attraverso un racconto corale, Portobello mette in luce non solo la vicenda giudiziaria e mediatica, ma anche le conseguenze umane e politiche di quella vicenda: la caduta pubblica, la difesa appassionata dell’avvocato Raffaele Della Valle – interpretato da Mancini – e la battaglia per restituire dignità a un uomo ingiustamente travolto da uno dei più clamorosi errori giudiziari italiani.
“Portobello” è stata presentata al Lido fuori concorso e si compone di sei episodi targati Hbo Original per la nuova piattaforma streaming Hbo Max. A Venezia, come precedentemente anticipato, sono stati proiettati i primi due episodi e l’intera serie sarà disponibile per il pubblico a partire da marzo 2026. A vestire i panni di Enzo Tortora, Fabrizio Gifuni, e insieme a lui, oltre a Mancini, figurano nel cast anche Lino Musella, Barbora Bobulova, Romana Maggiora Vergano, Federica Fracassi, Carlotta Gamba, Giada Fortini, Massimiliano Rossi, Pier Giorgio Bellocchio, Alessio Praticò, Gianfranco Gallo e un cameo di Alessandro Preziosi.
A poche settimane della Mostra del Cinema di Venezia, Goa Magazine ha intervistato Davide Mancini per raccogliere le sue emozioni a caldo, farsi raccontare il set e la storia di una serie che denuncia una magistratura inetta.
Cosa si prova a recitare in una serie diretta da Marco Bellocchio e a sfilare sul red carpet di Venezia?
Non è la prima volta che recito in una serie diretta da Marco Bellocchio, quindi posso dire con una consapevolezza sempre maggiore che lavorare con lui significa immergersi in un universo che non è mai soltanto narrativo, ma profondamente umano e politico. Bellocchio ti chiede di abitare il personaggio con un rigore quasi etico, di interrogarti su ciò che porti in scena e sul peso delle tue scelte interpretative. Non è un lavoro che rimane in superficie: ti conduce con grande abilità, rispetto e stima e questo facilita molto il lavoro dell’attore, nei vari progetti si è preso cura delle mie fragilità e mi ha aiutato ad affidarle ai vari personaggi che ho interpretato.

E poi Venezia. Camminare sul red carpet non è solo un momento di visibilità, ma una sorta di rito collettivo: un attraversare lo sguardo del pubblico e della critica con la consapevolezza che ciò che si celebra non è tanto l’individuo, ma il cinema stesso, nella sua capacità di riflettere, provocare e trasformare. È un’esperienza che ti lascia addosso una vertigine, quella di essere parte di una storia più grande di te.
Com’è stata la reazione del pubblico a Venezia durante la proiezione dei primi due episodi?
La reazione del pubblico a Venezia è stata travolgente. I nove minuti di applausi per “Portobello” non sono stati soltanto un tributo formale, ma un’onda collettiva di emozione, un riconoscimento che andava oltre la semplice fruizione dello spettacolo. Era come se la sala intera avesse respirato all’unisono con le immagini e la storia che Bellocchio ha messo in scena.
Quella curiosità palpabile negli sguardi e nei commenti che seguivano la proiezione era forse il segnale più prezioso: significa che l’opera ha acceso delle domande, ha aperto dei varchi di riflessione. E questo, in fondo, è ciò che rende il cinema di Bellocchio unico — non ti consegna risposte preconfezionate, ma ti invita a guardare più a fondo, a rimanere inquieto e vigile.
E invece per te com’è stato riguardarti, soprattutto in un contesto come quello di Venezia? Sei soddisfatto del risultato o cambieresti qualcosa?
Riguardarmi a Venezia è stata un’esperienza straniante e al tempo stesso illuminante. In sala non sei più soltanto l’attore che ha vissuto il set, ma diventi anche spettatore di te stesso, filtrato dallo sguardo del regista e restituito al pubblico. È un passaggio delicato, perché ti costringe a fare i conti con ciò che hai dato, con ciò che sei riuscito — o non sei riuscito — a lasciare impresso.
La soddisfazione c’è, ma non è mai totale. Credo che un attore non debba mai sentirsi “arrivato”: ogni scena riveduta porta con sé il desiderio di andare ancora più a fondo, di osare di più, di scavare ulteriormente nella verità del personaggio. Venezia, con la sua aura quasi sacrale, amplifica questa percezione: ti senti parte di un rito collettivo ma, al tempo stesso, ti interroghi in modo ancora più radicale sulla tua responsabilità artistica.
Che emozioni hai provato quando hai scoperto che avresti recitato nella serie? Chi è stata la prima persona con cui hai voluto condividere la notizia?
Quando ho scoperto che avrei recitato nella serie, ho provato una gioia che sfiorava quasi l’incredulità. Bellocchio mi aveva sempre ricordato che ero giovane rispetto al personaggio, e questa distanza anagrafica sembrava un ostacolo difficile da superare. Per questo i cinque provini che ho affrontato non sono stati solo una prova tecnica, ma un vero e proprio percorso interiore: ogni volta cercavo di dimostrare non soltanto a lui, ma anche a me stesso, di poter reggere il peso di quella responsabilità.
Quando finalmente è arrivata la conferma, è stato come se tutte quelle insicurezze si fossero trasformate in energia pura. Le prime persone con cui ho voluto condividere la notizia sono stati i miei familiari. Hanno gioito con me e come me credono fortemente che questo sia l’inizio di un percorso artistico sempre più intenso e gioioso. Non lo vediamo assolutamente come un punto di arrivo. Nell’arte é importante il talento ma dote ancora più necessaria é la determinazione e questo l’ho capito osservando il percorso delle loro vite e vorrei augurare a tutte le persone che mi stanno leggendo un percorso gioioso e ambizioso accompagnato da tanto entusiasmo.
E aggiungo che accettare quel ruolo significava anche accettare una sfida con me stesso: convincere Bellocchio è stato un privilegio, ma convincermi di esserne all’altezza è stata la vera conquista.
Che tipo di ricerca hai fatto sul personaggio che interpreti?
Interpretare Raffaele Della Valle ha significato assumersi una responsabilità enorme: non solo incarnare un avvocato, ma restituire la presenza viva di un uomo realmente esistito. Ho iniziato la mia ricerca dal materiale storico, dagli atti e soprattutto dal libro che lui stesso ha scritto sul caso Tortora. In quelle pagine ho trovato non soltanto la ricostruzione di una vicenda giudiziaria, ma la voce di un uomo che ha vissuto in prima persona il dramma di un’ingiustizia e la lotta per la verità.
La difficoltà più grande, però, è stata rendere il rapporto di amicizia tra Della Valle ed Enzo Tortora. Non bastava raccontare il legale che difende il suo cliente: bisognava far emergere la dimensione più intima, quella fiducia reciproca che nasce quando la legge incontra l’umanità. Trovare la misura di questo legame — mai retorico, mai artificiale — è stato forse l’aspetto interpretativo più delicato.
In scena, ho cercato di non imitare, ma di farmi attraversare dal senso etico e affettivo che li univa. Lavorare su Della Valle, in questo senso, non è stato solo prepararsi a un ruolo, ma interrogarmi profondamente sul significato dell’amicizia, della lealtà e del coraggio di stare accanto a qualcuno quando tutto il mondo sembra voltargli le spalle.
Hai mai sentito la responsabilità di rappresentare (anche indirettamente) chi ha vissuto quegli eventi, come la famiglia di Tortora, oppure il pubblico che li ha vissuti “in diretta”? E se sì, in che modo questa responsabilità ha influenzato le tue scelte interpretative?
Sì, la responsabilità l’ho sentita profondamente. Portare in scena una storia che appartiene non solo alla memoria della famiglia Tortora, ma a un intero Paese, significava muoversi con delicatezza e rispetto. Non potevo permettermi scorciatoie: ogni scelta interpretativa è stata guidata dall’idea di restituire umanità e verità, senza enfasi superflue.

Su Redazione
Il direttore responsabile di GOA Magazine è Tomaso Torre. La redazione è composta da Alessia Spinola. Il progetto grafico è affidato a Matteo Palmieri e a Massimiliano Bozzano. La produzione e il coordinamento sono a cura di Manuela BiaginiMessaggi correlati
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