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“7 MINUTI”, IL DRAMMA DELLA PRECARIETÀ TUTTO AL FEMMINILE
Alessandro Gassmann porta in scena la classe operaia smuovendo le coscienze e inducendo alla riflessione sullo sfondo di una crisi economica che affligge l’Europa
di Chiara Gaddi
Stefano Massini il pretesto per raccontare la storia di Bianca (interpretata da Ottavia Piccolo) e delle sue colleghe l’ha preso dalla realtà, spulciando le pagine di cronaca di un paesino dell’Alta Valle Loira, in Francia, a Yssingeaux, per la precisione. Intorno a quello, la costruzione di un immaginario dibattito a tinte forti, che però dalla realtà dei nostri giorni, purtroppo, non si discosta molto. “7 Minuti”, lo spettacolo in cartellone fino a domenica al Teatro della Corte, porta in scena undici donne, rappresentanti di altre duecento operaie, che si riuniscono per decidere le sorti del loro lavoro, quando la fabbrica passa di mano a nuovi proprietari, probabilmente in seguito a un’acquisizione straniera. Pronte al peggio, all’ipotesi di una riduzione del personale, a una delocalizzazione o un licenziamento, la proposta che viene avanzata sembra quasi donare un respiro di sollievo: tutto sarebbe rimasto invariato se avessero accettato di ridurre di “7 minuti” l’unico quarto d’ora di pausa in otto ore di lavoro. “Solo questo?” Sembrano chiedersi le protagoniste. E se invece fosse solo apparentemente una piccola richiesta, un’anticamera del licenziamento? Se a forza di piccoli passi fossero costrette a indietreggiare di chilometri senza nemmeno accorgersene? Sono le domande che Bianca, portavoce del consiglio di fabbrica e l’unica ad aver assistito alla riunione con i capi, pone di fronte alle coscienze delle colleghe, già pronte ad accettare.
I “7 minuti” diventano quindi il simbolo di una lotta ai propri diritti, di una responsabilità individuale che ricade dall’individuo alla collettività e che per questo non può essere affrontata con leggerezza. Lo spettacolo diretto da Alessandro Gassmann non parla solo di precarietà e quando lo fa non usa toni da comizi, ma riflette come uno specchio le vite delle undici donne, parlando delle loro storie, diverse per etnia, per generazione e provenienza geografica. Non solo, i singoli drammi snocciolati dallo spettacolo danno voce alla paura, al disagio esistenziale dovuto a un’occupazione precaria, al confronto generazionale dove l’istinto giovanile si scontra con l’esperienza. L’analisi di Massini va a scavare in profondità, pone le domande sulla giustizia e legittimità di un lavoro che fa nascere paura e competizione, ci fa vedere il nemico dove non c’è e muta il rapporto tra le persone. Il finale rimane aperto e inevitabilmente chiama il pubblico a dichiararsi, a uscire dall’ombra della sala e a rispondere alla domanda “A che cosa sei disposto a rinunciare pur di lavorare?”
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